Women On Music: Intervista a Paola Cuniberti

Paola Cuniberti

Manager e coordinatrice di progetti artistici, Paola Cuniberti ci racconta com’è lavorare nel settore musicale


Inauguriamo la nostra rubrica WoM – Women On Music dedicata alle donne che lavorano nel settore musicale insieme a Paola Cuniberti, coordinatrice di progetti e attività artistiche, manager di Niccolò Fabi, Co-Founder dell’hub culturale torinese Off Topic e molto altro ancora. 

voolcano: Parlaci un po’ di te. Com’è nata la tua passione per la musica?

Paola Cuniberti: Sono nata in una famiglia di ascoltatori di musica, la radio era sempre accesa e mio papà aveva un po’ di vinili che ogni tanto ascoltavamo insieme. Ma soprattutto ho un fratello, che ha 10 anni in più di me, a cui ho rubato audiocassette per anni. Quando mi chiedevano: “cosa vuoi fare da grande?” La risposta era: “cantante o produttrice musicale” (chissà dove lo avevo sentito). Da allora è continuato il mio amore per la musica studiandola, ascoltandola e suonando in band varie e variegate. Infatti definisco la musica l’unic* partner con cui non andrò in crisi. È evidente che quando la tua più grande passione diventa il tuo lavoro si possono creare dei piccoli smottamenti emotivi, ma li ho gestiti.

v: Ci racconti di quando hai capito che nella vita volevi fare questo lavoro?

PC: Ho sempre avuto la sensazione che la musica sarebbe stata nella mia vita. Quando mi sono iscritta all’università pensavo sarebbe stata da fruitrice e da musicista. Poi, per caso, ho iniziato a lavorare in un’agenzia di management.. e da lì è partito tutto.

Paola Cuniberti, foto di SteBrovetto Ph
Fotografia di ©SteBrovetto Ph

v: Qual è l’aspetto che preferisci della tua professione e perché?

PC: Grazie alla modalità in cui ho scelto di lavorare devo dire di aver trovato un buon equilibrio tra ciò che preferisco e ciò che mi affatica (pandemia a parte). Se devo indicare un aspetto su tutti, scelgo sicuramente quello relativo alla programmazione e produzione. Nella vita amo organizzare, dalle vacanze al tour, fino ad un menù pensato e strutturato nei minimi dettagli. Questo vale per gli artisti come per i festival e altri progetti.

Essere manager significa saper creare occasioni. È importante essere preparati su tutto (dalla contrattualistica al live, passando per la discografia e l’editoria) e saper scegliere i giusti partner e consulenti, con cui accompagnare l’artista nel percorso.

v: Con quale formazione ti sei avvicinata a questo lavoro?

PC: Dopo il liceo mi sono iscritta al DAMS di Torino, indirizzo Nuovi Media. Durante un laboratorio di TV (biennio di specialistica) ho conosciuto una compagna di università che già lavorava in un’agenzia di management che mi ha chiesto di lavorare con lei. Nel frattempo stavo lavorando per l’Università del Piemonte Orientale con una borsa di studio ma la scelta è stata immediata. Svariate altre esperienze fondamentali hanno riempito i successivi 5 anni. Dal 2012 sono freelance, curo il Management di Niccolò Fabi e mi occupo di tanto altro (produzione di festival, co-fondatrice di centro culturale, attività su artisti emergenti e altre collaborazioni, etc). Ovviamente tutte le mie esperienze lavorative precedenti, dalla cameriera al call center passando per la gestione di un laboratorio all’interno dell’università sono stati inconsapevolmente indispensabili per il mio lavoro attuale, dalla gestione degli spazi e delle persone alla capacità di “convincimento”.

v: Cosa vuol dire essere donna nel settore musicale? Ad oggi, secondo la tua esperienza, esiste ancora un forte gender gap in questo ambiente?

PC: Lavoro nell’ambiente musicale da circa 15 anni e da 10 anni sono una libera professionista e imprenditrice. Ci sono stati pochi momenti in cui ho sentito una discriminazione di genere evidente, quella di cui mi parlano collaboratrici o amiche, però a volte è tutto così subdolo che neanche ce ne rendiamo conto. Il mondo della musica è “messo” come il resto, per alcuni aspetti forse è peggio, per altri forse meglio. Mi confronto continuamente su questo tema, sia con amiche che con collaboratrici e colleghe, e i punti di vista sono tantissimi. Le sfumature ancora di più. All’inizio del mio percorso professionale ricordo la combo “donna/giovane”, ed erano sempre uomini adulti a sminuire il mio lavoro, traducendolo a volte in un umiliante “gioca a fare la manager”.

Ora riconosco di essere una piccola isola felice, anche rispetto alle altre mie esperienze professionali. Probabilmente ho la “fortuna” di avere un forte istinto di sopravvivenza che mi aiuta a evitare chirurgicamente, in modo quasi inconscio, luoghi che percepisco trasudare misoginia, spesso interiorizzata, a volte sfacciata. Li evito ma sottolineo il disappunto. Ho deciso di non accettare compromessi in questo senso… e mi è successo di non accettare proposte di lavoro o consulenze perché percepivo atteggiamenti maschilisti. So di essere privilegiata nel potermi permettere un no professionale, ma ritengo sia giusto che chi può rifiuti ambienti sbagliati, ovviamente esplicitando il perché del no e non adducendo scuse diverse.

Rispetto al discorso “artistico” l’argomento è ancestrale e radicato in alcuni stigmi che vanno scardinati e per cui si deve lavorare tanto. Ci sono movimenti nazionali e internazionali, anche musicali, che conoscete bene, che lavorano tanto su questi temi. Ogni nazione ha i suoi problemi, i suoi livelli di avanzamento. L’Italia non credo sia particolarmente avanti, nonostante esistano menti illuminate, sia maschili che femminili, che dovrebbero essere ascoltate molto di più e da cui si dovrebbe imparare, per riuscire ad affrontare la materia con consapevolezza. Io continuo a studiare in relazione al gender gap e al linguaggio. E il mio pensiero si evolve, a volte anche cambiando opinione. Non voglio smettere di parlarne e di informarmi, proprio perché in un certo senso mi sono sentita fortunata. Comunque il problema c’è, come in tutti gli aspetti e gli ambiti lavorativi.

v: Cosa significa, per te, essere una manager?

PC: Identificare i valori e i “limiti” dell’artista con cui lavoro, cercando di valorizzare i primi e di capire come gestire i secondi. Amo chiamarmi “coordinatrice di progetti”, accezione che vale su un artista, come su un festival, una rassegna, un evento. Essere manager significa saper creare occasioni. È importante essere preparati su tutto (dalla contrattualistica al live, passando per la discografia e l’editoria) e saper scegliere i giusti partner e consulenti, con cui accompagnare l’artista nel percorso.

Paola Cuniberti, foto di Simone Cecchetti
Scatto di Simone Cecchetti ©

v: C’è una canzone, un momento in particolare, un concerto a cui sei particolarmente legata?

PC:A case of you” di Joni Mitchell è una delle canzoni che mi ha fatto cambiare lo sguardo nei confronti della musica. Parlando di momenti mi viene in mente quando in prima superiore il prof. di arte mi fermò nel corridoio della scuola e mi disse: “secondo me devi ascoltare lei” e mi regalò un’audiocassetta di un greatest hits di Janis Joplin. Ora ho tutta la sua discografia in vinile. Un concerto? Fine anni ’90 al Chicobum Festival (Torino), a sentire Ani Di Franco saremo stati 50. Mai più visto una performer così potente dal vivo, nell’equilibrio tra la voce e la padronanza della chitarra. Pazzesca.

v: Quali sono gli artisti che ti hanno lasciato un segno?

PC: Michael Jackson, Janis Joplin, Carmen Consoli, Lucio Battisti, Beatles, Ani Di Franco, Nirvana e Afterhours (e tanti altri), nella prima metà della mia vita (fino ai 20 circa). Sufjan Stevens, Bon Iver, Florence and the Machine, Notwist, Lali Puna (in momenti molto diversi), nella seconda metà della mia vita.

v: Come spiegheresti a noi comuni mortali, di cosa ti occupi? Com’è la giornata tipo di una manager?

PC: Risposta difficilissima. Il lavoro dipende dai periodi e dall’attività dell’artista. Non avendo un’agenzia con tanti artisti, posso permettermi il “lusso” di svolgere altre attività e sviluppare altri business (produzione di festival, co-direzione di un centro culturale, collaborazioni lato promozione e project manager). Quando parte un progetto specifico su un artista le giornate si passano al telefono per programmare, organizzare, accettare, rifiutare, ascoltare, proporre. Vivendo fuori dalle città principali del music business spesso mi muovo verso Milano e Roma, dove raduno incontri sui vari aspetti che il lavoro di programmazione richiede.

v: Se potessi tornare indietro, sceglieresti questo percorso? O avevi altri progetti per la tua vita?

PC: Sceglierei lo stesso, ringrazio “il destino” che sicuramente ci ha messo lo zampino. Forse farei altre valutazioni di natura più logistica e organizzativa, ma l’idea di essere una libera professionista che sviluppa collaborazioni, progetti da sola o con team, mi piace molto.

v: Poter seguire un artista in tour a noi sembra entusiasmante, ma cosa si respira nel seguirli giorno dopo giorno? Come si affrontano le giornate no?

PC: A prescindere dal tour, che non è un momento che prevede necessariamente la presenza costante del manager, è evidente che il “day by day” è un aspetto molto importante e delicato del lavoro con gli artisti. In primis è importante ricordare sempre che gli artisti sono persone, con una vita privata, popolata di gioie e dolori, successi e difficoltà, da cui non si può prescindere anche quando si parla di lavoro. È importante comprendere lo stato emotivo per avanzare delle proposte su cui prendere poi delle decisioni, che comprendono un lavoro artistico per esempio. Le giornate no si affrontano e si gestiscono, come con tutti gli esseri umani con cui si interagisce nella vita.

v: Come vedi il futuro della musica e dei concerti live?

PC: È una domanda difficile e dolorosa. Credo e temo che ci vorrà molto tempo prima che la situazione si normalizzi. Il mondo della musica live la scorsa estate ha dimostrato tutta la professionalità e l’alta capacità di problem solving, creando in tempi rapidissimi situazioni confortevoli e sicure per il pubblico. È evidente che i numeri (in termini di capienze) dello scorso anno non permettono ad un settore di vivere, senza finanziamenti pubblici (statali o locali che siano). È perciò fondamentale che le istituzioni mettano a fuoco la situazione reale e aiutino concretamente il settore…osservando la filiera nella sua globalità (lavoratori, autonomi, impresa, terzo settore). Sarebbe inoltre corretto che le stesse istituzioni facessero riferimento agli stessi operatori per comprendere al meglio le fasi di una riapertura, che sia sicura e sostenibile per tutti.

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